In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».(Gv 15,1-8)
Il Vangelo di oggi è caratterizzato dal verbo RIMANERE e dalla parabola (o similitudine) della VITE. Rimanere è un verbo-chiave nel vangelo di Giovanni, forse sarebbe meglio tradurlo con “abitare” oppure “dimorare”. All’inizio del quarto Vangelo, i primi due discepoli che vanno dietro a Gesù (uno dei due è Andrea, fratello di Simone/Pietro) gli chiedono: “Dove abiti?” e Gesù li porta a casa sua e “rimangono” con lui un pomeriggio intero. Rimanere/abitare dice familiarità, intimità, legami e affetti, essere o diventare “uno di casa”, condividere progetti, fatiche, sogni perché ci sono cose che ci diciamo in famiglia e solo in famiglia.
Gesù applica quel verbo alla nostra relazione con lui, rimanere noi in lui e lui in noi come i tralci inseparabilmente uniti alla vite. La parabola della vite – con riferimenti precisi alla coltivazione di questa pianta mediterranea, come domenica passata quella del pastore – dice molto sulla realtà profonda dell’incarnazione: Dio-fatto-uomo, venuto a fare sua la nostra esistenza, la storia e la geografia, il lavoro e le fatiche (pastorizia e agricoltura erano le due principali occupazioni e fonti di sussistenza nella Palestina di allora), niente gli è estraneo e tutto viene a fare suo, condividendo e quasi immergendosi nella trama quotidiana della nostra umanità…
Il legame della vite e dei tralci (anche i tralci sono parte della vite!) dice qualcosa di stabile, di non occasionale. Con questo paragone Gesù definisce quella che è/dovrebbe essere la nostra relazione con lui: un flusso ininterrotto di bene: come dalle radici, dal ceppo e dal tronco della vite passa ai tralci la linfa vitale che li rende capace di fruttificare. Troppo spesso noi viviamo la relazione col Signore come inserire o togliere nella presa di corrente un apparecchio elettrico se ce ne dobbiamo servire: così noi ricorriamo alla preghiera per una necessità, o in un momento di slancio e di fervore, per una ricorrenza o un’abitudine. Ma il tralcio non si collega alla vite occasionalmente, è unito organicamente, fa parte della sua natura, del suo essere, è fonte della sua vita, causa dei suoi frutti. Radicarci, fondarci, innestarci, essere intimi di Gesù, e Lui di noi: questo ci propone e ci chiede la parabola, sta a noi dare sostanza, continuità, flusso vitale alla nostra relazione col Signore. Queste cose ce le dice con chiarezza, efficacia ed entusiasmo papa Francesco nella GAUDETE ET EXSULTATE, parlando di una santità alla portata di tutti, non solo dei monaci o dei consacrati, perché “il santo è una persona dalla spirito adorante, che ha bisogno di comunicare con Dio (…) uno che esce da sé nella lode e allarga i propri confini alla contemplazione del Signore (…) anche se non si tratta necessariamente di lunghi momenti o di sentimenti intensi” (n. 147). Insomma, una santità possibile a ciascuno.
Altri due spunti da questo Vangelo. Il primo è la potatura, i tagli che l’agricoltore esperto fa sulla pianta e che sono di due tipi: togliere via, per poi gettarli nel fuoco, i tralci inutili, quelli che farebbero soltanto foglie e toglierebbero alimento ai grappoli al momento della loro maturazione; oppure accorciare e disporre con cura nel filare i tralci destinati a portare frutto. Anche questi tagli producono una ferita, fanno male alla pianta ma poi si riveleranno funzionali al suo bene. Qui possiamo spingere il paragone a quelle sofferenze e quelle prove che prima Gesù e poi i suoi discepoli fedeli devono affrontare per fedeltà alla missione, ricordando una massima antica: il sangue dei martiri è fecondo di frutti che sono nuovi cristiani. Potature/sofferenze che talora la stessa Chiesa può aver inflitto a suoi membri in momenti di smarrimento e di chiusura alla profezia, la storia ne è piena. Penso – solo per restare in tempi e luoghi vicini a noi – a don Mazzolari, don Milani, don Zeno di Nomadelfia…
Un ultimo spunto lo prendo dalla perentoria affermazione di Gesù: “senza di me non potete far niente”. Parole su cui ciascuno di noi è chiamato a un serio esame di coscienza. Senza deprimerci, perché Gesù dice questo (io credo) per spalancare la prospettiva opposta: con me potete fare tutto! E allora, nel legame di fede e di amore con Gesù, si aprono praterie sconfinate di bene personale e sociale: giustizia, pace, solidarietà, accoglienza, perdono, cura di ogni vita, gioia dell’incontro col Signore e tra noi.
Buona domenica!