In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
(Gv 10,11-18)
La definizione di Gesù come “buon pastore” (e questa quarta domenica di Pasqua come quella “del buon pastore”) non è la miglior traduzione del Vangelo in cui Gesù applica a se stesso il paragone del pastore accompagnandolo con l’aggettivo kalòs, che significa “bello”. I commenti biblici spiegano che non si tratta tanto di una qualificazione estetica, ma di affermare che Gesù è il vero pastore: autentico, buono non in senso moralistico, ma perché guida le pecore sulla via buona, retta, giusta. Quindi bello perché affascinante, che vale la pena di seguire. Il tradizionale “buon pastore” rischia invece di fermarsi a un aspetto sentimentale e anche un po’ sdolcinato.
Nel vangelo di Giovanni l’affermazione IO SONO ricorre, quasi come un ritornello, sette volte (numero biblico della completezza). Con essa Gesù attesta la sua identità, la sua missione, la sua opera, il motivo per cui il Padre lo ha mandato: IO SONO il pane della vita, la luce del mondo, la porta delle pecore, il pastore buono/bello, la risurrezione e la vita, la via la verità e la vita, la vite vera. Inoltre c’è un IO SONO come assoluto, Gesù afferma ciò che sarà evidente quando sarà innalzato sulla croce) e lo proclama davanti a coloro che vanno nel Getsemani ad arrestarlo: SONO IO! Vi possiamo anche cogliere un’eco biblica del libro dell’Esodo, quando Dio si rivela a Mosè con le parole “Io sono colui che sono”.
La similitudine del pastore attesta due cose: Gesù si colloca nel solco della fede e dell’attesa di Israele come discendente di Davide, diventato re dopo aver fatto il pastore, e il re-pastore indica il tipo di autorevolezza e di legame fedele che dovrebbe contraddistinguere chi è posto alla guida del popolo. L’altro aspetto, per i particolari con cui è descritto l’agire del pastore, dice come Gesù conosce bene la quotidianità della sua gente e il loro lavoro (in analogia con le molte parabolo collegate all’agricoltura).
Gesù insiste sulla cura delle pecore, sul fatto che il pastore vero si mette a servizio, fino a dare la vita (per poi riprenderla di nuovo, anticipo del legame inscindibile tra morte e risurrezione). Nella differenza tra il pastore che si sacrifica e non lascia nulla di intentato per curare e proteggere il gregge e il modo di fare del mercenario possiamo anche cogliere un intento polemico e accusatorio verso le autorità giudaiche che opprimono le persone anziché curarle e liberarle. Invece il pastore vero “porta fuori” le pecore accompagnandole e aprendo loro spazi di libertà.
Il vero pastore conosce le pecore ed è conosciuto da loro: il conoscere biblico indica una relazione di affetto profondo, un legame amoroso della stessa natura di quello che unisce lo sposo e la sposa, il Padre e il Figlio, Gesù e noi.
L’immagine del pastore è tra le più antiche con cui i cristiani hanno illustrato Gesù, fin dalle catacombe e nei magnifici mosaici di Ravenna. Il termine “pastorale” è passato a indicare sia il “bastone” che tiene in mano il vescovo esercitando verso il popolo a lui affidato la stessa cura di Gesù per le pecore, sia soprattutto le azioni e i progetti della Chiesa per l’evangelizzazione, la cura e la santificazione del popolo di Dio. Un impegno che oggi sempre più deve riguardare le pecore fuori dal recinto rispetto a quelle dentro. Il nostro Arcivescovo ha dato al piano pastorale della diocesi di Pisa il titolo “Una Chiesa con le porte spalancate”.
Papa Francesco ha tradotto l’ansia pastorale che vorrebbe trasmettere a tutti i pastori con l’efficace definizione del pastore che deve avere lo stesso odore delle pecore. Ed è andato in visita al paese natale di Alesano) e alla diocesi di Molfetta in cui si svolse la vita apostolica di don Tonino, profeta evangelico di pace e di giustizia. Egli davvero incarnò con tutta la sua vita l’immagine e la sostanza di un pastore veramente BELLO.