Sul numero 132 del periodico Il Grandevetro è uscito questa mia riflessione, pubblicata con il titolo “UGUAGLIANZA E GIUSTIZIA”
Il problema non è la povertà, il problema è la ricchezza. In una visione cristiana della realtà (della storia, dell’economia, dei rapporti politici e sociali) balza agli occhi da una parte la predilezione di Gesù di Nazareth, ma anche del Dio dell’Antico Testamento, per i poveri. È chiara e insistita in tutta la Bibbia la condanna della ricchezza, dell’accumulo, di tutte le situazioni in cui il ricco opprime il povero, lo spoglia di beni e di dignità. Talvolta inconsapevolmente, come il gaudente della parabola evangelica che ignora come sulla soglia della sua casa ci sia un disgraziato che si accontenterebbe di quello che cade in terra dalla mensa del ricco.
Duemila anni dopo, la situazione non è molto diversa. Il mondo si divide in paesi ricchi e paesi poveri, in popoli dell’abbondanza e popoli della fame. Qualcosa è cambiato in meglio in quello che un tempo chiamavamo Terzo Mondo, soprattutto in Asia sono in atto processi di sviluppo e crescita economica, per quanto scomposti e disomogenei. Però – emblematica la situazione italiana – nella parte del mondo più prospera, caratterizzata da un benessere diffuso, sono in atto processi di crescita della povertà, sia relativa che assoluta e un generale scivolamento verso il basso delle classi medie. La ricchezza si va concentrando nelle mani di pochi. Il cosiddetto ascensore sociale si è fermato, i ricchi restano ricchi e lo sono sempre di più (di soldi, di opportunità, di cultura, di potere) e la povertà si fa visibile, palpabile e spesso incurabile. Rischiamo di diventare una società di rassegnati: a convivere con i poveri, a dimenticare progetti di uguaglianza, a mettere nel cassetto sogni di riscatto e di liberazione.
Tornando alla parabola evangelica, la soluzione del problema della povertà non può essere organizzare mense per i poveri, distribuzioni di pacchi alimentari agli indigenti e simili, ma mettere intorno alla stessa tavola ricchi e poveri, o meglio ex-ricchi ed ex-poveri. Queste sono misure tampone, risposte emergenziali.
Però, soprattutto in molti di coloro che si sono rimboccati le maniche, si fa strada un dubbio atroce: forse il mondo è condannato a essere così, forse c’è un peccato originale che segna talmente la condizione umana da rendere impossibile la lotta alla povertà, l’eliminazione della miseria. Per molto tempo si è pensato che la politica sarebbe riuscita a dettar legge all’economia, che la forza della democrazia poteva/doveva essere tale da assicurare a tutti i cittadini il diritto non solo al voto, ma a un’esistenza dignitosa, almeno al necessario e sufficiente per vivere, insieme a un livello adeguato di istruzione e di salute per tutti. Essendo altresì chiaro che ciascuno è chiamato a concorrere con il suo lavoro e a contribuire attraverso la fiscalità generale progressiva, dando per certo che in una società solidale sia normale una più consistente partecipazione al benessere generale da parte di chi ha di più.
Molti di questi principi si sono progressivamente erosi, la costruzione di una democrazia politica senza una corrispettiva democrazia economica si è vanificata. La politica è sempre più il bla-bla-bla di incompetenti e arroganti. Forse al cuore di tutto ci sta la perdita del senso, del valore e della priorità del lavoro. Di un lavoro che diventi possibilità effettiva per tutti. Anche i difensori della Costituzione, enfaticamente dichiarata come “la più bella del mondo”, quasi mai sottolineano l’importanza dell’articolo 3: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Giorgio La Pira, del quale la Chiesa cattolica sta portando avanti la causa di beatificazione, non fu soltanto uno dei più importanti redattori dei principi fondamentali della carta costituzionale. Subito dopo, diventato sottosegretario al Ministero del lavoro, diede vita a quel “piano Fanfani” mediante cui – traducendo le teorie di Keines in italiano – si creavano molti posti di lavoro producendo soprattutto uno dei beni primari per una società: la casa. La Pira amava dire. “è chiaro che nella città un posto ci deve essere per tutti: il posto per amare, la casa; il posto per lavorare, l’officina; il posto per imparare, la scuola; il posto per guarire, l’ospedale”. Da buon cristiano aggiungeva: “il posto per pregare, la chiesa”. Una casa per tutti, un lavoro per tutti sono (sarebbero?) il primo essenziale modo per combattere la povertà. Che ci siano case vuote anche per motivi speculativi, che manchi il lavoro anche perché ci sono ricchi proprietari che preferiscono le rendite agli investimenti sono dati di fatti certi. I problemi non sono solo questi, ce ne sono anche altri forse più grandi.
Ma siamo in presenza di una politica incapace di governare gli andamenti economici e finanziari, o almeno di orientarli e correggerli. Accanto a indubbi problemi tecnici, è sempre più evidente la mancanza di etica, di pensiero alto, di desiderio di bene comune, di disponibilità a gesti generosi e lungimiranti, ivi compresa la rinuncia a interessi e benefici individuali o di parte.
Torno a citare la Bibbia, il Salmo 49 che per due volte afferma: “L’uomo nella prosperità non comprende, è come le bestie che muoiono”. La prosperità individuale o di ristretti gruppi di benestanti, difesa a ogni costo, può far emergere nell’essere umano veramente attitudini bestiali, animalesche. E poi vado al libro della Sapienza, alla preghiera dell’ebreo devoto e saggio che nel libro dei Proverbi (30, 8-9) chiede a Dio: “non darmi né povertà né ricchezza, ma fammi avere il mio pezzo di pane, perché, una volta sazio, io non ti rinneghi e dica: chi è il Signore? Oppure, ridotto all’indigenza, non rubi e abusi del nome del mio Dio”. Affermazione di una sapienza religiosa, che in versione laica per il nostro tempo potremmo così esprimere: la sazietà e la ricchezza rendono superficiali, tolgono valore alla coscienza morale, minano l’interiorità; la povertà estrema abbrutisce, incattivisce verso Dio e verso il prossimo.
Le donne e gli uomini di buona volontà non si riconoscono in una società che contrappone i sazi e i disperati, non si confondono con i ricchi che fanno opere di carità in favore dei poveri senza rimuovere le cause delle differenze. Ma coltivano il sogno e la speranza, l’obiettivo e l’impegno di un mondo di uguali, di liberi e soprattutto di sorelle e fratelli. L’uguaglianza al servizio della giustizia e dell’equità, la libertà come espressione della coscienza personale, la fraternità come base del rispetto dovuto a ciascuno e di quel dialogo con cui si costruisce la pace.
don Antonio Cecconi